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Inaugurazione Anno Giudiziario. Radicali, “Noi in Carcere”

RADICALI: “L’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO NOI LA FACCIAMO IN CARCERE”

Torino, 28 gennaio 2017 – Oggi, durante la cerimonia di apertura dell’Anno giudiziario, Luciano Costa (Associazione radicale Adelaide Aglietta) ha portato il contributo radicale con un testo nel quale si denuncia il continuo uso strumentale dei pentiti e il ricorso sempre più marcato e frequente di norme di legge “alla giornata”, spesso al di fuori e contro il sistema complessivo del diritto, per soddisfare sentimenti e reazioni della pubblica opinione. Un modo di gestire le leggi che non fa altro che riempire le carceri di disperati. (Di seguito il testo completo letto da militanti e dirigenti di Radicali Italiani in venti sedi giudiziarie in Italia).

Per richiamare l’attenzione sulla necessità impellente della riforma del sistema carcerario dove, di nuovo, il sovraffollamento e le carenze di organico sono all’ordine del giorno, i Radicalifaranno la loro inaugurazione dell’Anno giudiziario in carcere. Lunedì 30 gennaio con il Consigliere regionale Marco Grimaldi di SEL-Sinistra Ecologia LibertàIgor Boni e Silvja Manzi della Direzione nazionale di Radicali Italiani saranno alla Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”, in Via Adelaide Aglietta.

All’uscita della struttura, intorno alle ore 12.15, è prevista una conferenza stampa.

Discorso Radicali Italiani per Inaugurazione Anno Giudiziario 2017

Ancora una volta, come avviene oramai da decenni, l’Anno Giudiziario è inaugurato nel segno e nel contesto di un’emergenza, anzi di più “emergenze”, ché, quando si dà per scontato che l’ordinamento giuridico, la giustizia, il suo ruolo tra le istituzioni dello Stato possano una volta essere condizionate “dall’emergenza”, è ben difficile che, poi si possa considerare di “esserne fuori” ed escludere che, invece, sempre nuove ne sopravvengano.

Emergenze mafia, emergenze corruzione, emergenze terrorismo.

La giustizia “delle emergenze” è da considerare “giustizia”? È compatibile con i principi fondamentali cui essa deve essere improntata nei Paesi civili?

Non sarà qui ed ora che potrà darsi una risposta d’ordine generale. Ma è impossibile, se non si vuole che questo diventi uno squallido rituale magari anche un pochetto ridicolo, non interrogarci sul fatto che stanno tragicamente venendo al pettine i nodi rappresentati da questa “devianza” della giustizia.

Cominciamo da uno di quelli che oramai sono diventati scandalosi.

Eventi recentissimi hanno richiamato l’attenzione sul “sistema”, che di un complesso sistema si tratta, dei pentiti, che costituisce l’architrave di ogni prova non solo in materia di criminalità organizzata. I pentiti hanno creato un loro mondo, una loro “verità”: si sostengono e si “ispirano” reciprocamente. Sono “gestiti” (come si dice oramai nel linguaggio giudiziario) da determinati magistrati con i quali collaborano con un rapporto personale.

Ne assecondano le “intuizioni”, ne sostengono le “tesi”, ne colpiscono i “nemici”.

Ogni tanto clamorosi casi di falsità, evidenti manifestazioni di “pentimenti” strumentali, lasciano intravedere le magagne del problema. Ma a tutti si risponde in un solo modo: I pentiti sono “essenziali”, per la “lotta” alla criminalità organizzata. Questo “supera” il problema della affidabilità delle loro dichiarazioni.

Quante sentenze sono viziate, false, ingiuste, perché fondate su dichiarazioni di pentiti che saranno pure risultati “essenziali” per la lotta, ma non altrettanto per la certezza delle accuse fondate sulle loro “rivelazioni”?

E qui bisogna soffermarsi a riflettere su ciò che la storia della nostra legislazione processuale ci dimostra. Quando fu introdotta nel codice di procedura la formula della necessità, per addivenire ad una sentenza d condanna, della dimostrazione della colpevolezza dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” (escludendo quindi, ad esempio, il valore di una pur altissima probabilità) avrebbe dovuto verificarsi una svolta, un “terremoto” nell’esito dei processi penali.

Avrebbe dovuto scomparire per sempre la tendenza a far dipendere le condanne dall’esigenza di “dare un esempio”, di rendere meno allettante l’idea del ricorso al crimine etc. etc.

Non è successo niente. Non sono nemmeno cambiate le parole con le quale le sapienti motivazioni prevalgono sulla ragionevolezza dei motivi delle condanne. Le statistiche non ne hanno risentito. Ancora una volta la legge è risultata non essere fatta per realizzare il suo semplice e chiaro dettato.

È in corso un sempre più marcato e frequente ricorso a norme di legge “alla giornata”, spesso al di fuori e contro il sistema complessivo del diritto, per soddisfare sentimenti e reazioni della pubblica opinione in ordine a particolari in sé non essenziali dei comportamenti considerati. L’uso di qualche termine straniero, entrato nel linguaggio usuale da un sistema giuridico totalmente diverso dal nostro, completa il quadro di uno sfascio del sistema.

La proporzionalità delle pene secondo la gravità effettiva del delitto è stata compromessa e rovinata dall’esigenza di adattare le leggi penali alla contingenza di momenti di allarme e di esecrazione per certi reati.

E qui si deve dire chiaramente che la “giustizia di lotta”, per “campagne”, di volta in volta contro questa o quella forma di criminalità, oltre a determinare pregiudizi e deformazioni delle valutazioni delle prove necessarie per applicare le norme repressive, finisce per portare alla disgregazione ed allo sfascio dell’armonia degli ordinamenti giuridici.

Da un punto di vista soggettivo, poi, questo tipo di giustizia finisce per conferire a chi è chiamato a esercitarla una visione del proprio compito che, anziché di applicazione e, quindi, di soggezione alla legge, è di superiorità della giurisdizione al diritto: la pericolosa involuzione della funzione giuridica e del corpo stesso della Magistratura spinta ad assumere tendenze, a essere parte, partito, e a deformare l’Istituzione che rappresenta con l’assunzione di un ruolo concorrente e finalizzato alla supremazia rispetto agli altri organi costituzionali.

Se si è potuto parlare di “Partito dei Magistrati” ciò non è dovuto a una perversa tendenza personale, ma a un complesso di deformazioni del diritto e delle istituzioni che sarebbe nell’interesse di tutti analizzare per poterne evitare l’effetto di pericolose devianze.