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#DirittiUmani #Laos #26ottobre

17 anni fa dalla capitale del Laos, Vientiane, partiva un movimento nonviolento che coinvolgeva i laotiani dentro e fuori dal Paese, quelli vessati dal regime, ignoto e ignorato, e quelli costretti all’esilio. Ma non solo.
15 anni fa anche noi, radicali nonviolenti, eravamo lì.
Molto c’è ancora da fare, ma intanto è d’obbligo, almeno, ricordare.
Ecco il reportage che scrissi allora.

***

REPORTAGE LAOS

 

di Silvja Manzi

 

Il 26 ottobre 1999 un gruppo di studenti, insegnanti e lavoratori laotiani organizza a Vientiane, capitale del Laos, una manifestazione pacifica per chiedere più democrazia. La manifestazione viene subito repressa e gli organizzatori arrestati. Sono cinque, si chiamano Thongpaseuth KEUAKOUN, Bouavanh CHANMANIVONG, Khamphouvieng SISA-AT, Seng-Aloun PHENGPHANH e KEOCHAY. Da quel momento di loro non si saprà più nulla. Le autorità laotiane negano l’arresto, negano persino che si sia svolta la manifestazione.

Nel novembre dell’anno successivo un’altra manifestazione, alla quale partecipano oltre 200 laotiani, viene organizzata nel sud del Paese in ricordo dei cinque. Anche questa viene immediatamente repressa e 15 persone arrestate.

Quest’anno, in occasione del secondo anniversario dell’arresto dei leader del “Movimento del 26 ottobre”, con l’aiuto degli amici della diaspora laotiana decidiamo di organizzare una manifestazione a Vientiane per conoscere la sorte dei cinque studenti. Siamo in cinque, come loro; siamo militanti di un partito, il Partito Radicale Transnazionale, che è una Organizzazione Non Governativa con Status consultivo alle Nazioni Unite e che fa della nonviolenza un metodo di lotta attiva; siamo Olivier Dupuis (segretario del PRT e parlamentare europeo della Lista Bonino), Bruno Mellano (consigliere regionale radicale in Piemonte), Nikolay Khramov (leader dei radicali in Russia e membro della direzione del PRT), Massimo Lensi e io, Silvja Manzi (membri del consiglio generale del PRT). Decidiamo di compiere un’azione di disobbedienza civile manifestando in favore della democrazia, consapevoli di rischiare l’arresto, per far esplodere le contraddizioni di un regime tra i più feroci del pianeta.

 

L’organizzazione

Il 25 ottobre arriviamo a Vientiane attraverso il Ponte dell’Amicizia, il ponte che attraversa il fiume Mekong, confine naturale tra il Laos e la Thailandia. Nelle nostre valige ci sono i volantini e lo striscione preparati in Italia. Alla frontiera non c’è controllo e passiamo senza problemi. Con noi c’è Martin Schulthes, un altro militante radicale, che ha il compito di fare una corrispondenza della manifestazione in diretta con Radio Radicale; deve riuscire a non farsi arrestare con noi per poter uscire dal Paese e dare informazioni sulla nostra iniziativa. Quindi, dal momento in cui entriamo nel Laos, ci separiamo e ci teniamo in contatto solo con i cellulari.

La mattina di venerdì 26 ottobre ci rechiamo nella piazza principale della città, esattamente dove due anni prima si era svolta la manifestazione che aveva portato all’arresto di Keuakoun e dei suoi compagni. Purtroppo la piazza è impraticabile a causa di lavori stradali, andiamo quindi alla ricerca di un posto alternativo. La città è piena di traffico di moto e tuk-tuk, i tipici taxi locali fatti con la parte anteriore delle motociclette e la parte posteriore furgonata per il trasporto di persone. Non ci sono molti pedoni. Di fronte al palazzo del Presidente della Repubblica, sulla sponda del fiume Mekong, ci sono dei giardinetti con un po’ di gente, soprattutto studenti perché lì vicino c’è anche la scuola della Gioventù Rivoluzionaria. Ma sono poche decine di persone. Decidiamo allora di dividerci in due gruppi. Bruno, Nikolay e io manifesteremo qui, Olivier e Massimo andranno a volantinare all’interno del campus universitario, a 12 chilometri da Vientiane.

Lasciamo i nostri passaporti nelle guest-house perché abbiamo deciso di manifestare da anonimi, desaparecidos, come lo sono da due anni i cinque scomparsi.

Decidiamo assieme che l’ora “x” per la nostra azione è alle 17 (le 12 in Italia).

 

La manifestazione

Alle 16 e 45 ci incamminiamo sulla sponda del fiume, Martin ci segue a distanza. Ci fermiamo ai giardinetti, Martin “passeggia” sull’altro lato della strada, proprio davanti al palazzo presidenziale. Sembra non ci sia polizia in giro. Vedo che Martin parla al telefonino, è già in collegamento con Radio Radicale. Probabilmente non riuscirà a fare fotografie. È troppo pericoloso. Ci scambiamo uno sguardo e, al segnale, Bruno e Nikolay srotolano lo striscione.

Lo striscione è in lingua lao, c’è scritto: “Democrazia, Libertà e Riconciliazione in Laos”. Perché? Perché il Laos è un Paese di 5 milioni di abitanti, 1 milione di laotiani vive in esilio e non può tornare nel proprio Paese. È una proporzione impressionante. Riconciliazione è una parola molto importante per loro.

Mentre Bruno e Nikolay tendono lo striscione proprio di fronte al palazzo presidenziale, in modo che sia visibile dalla strada e dai giardini, io distribuisco i volantini. Anche i volantini sono in lingua lao. Riportano le motivazioni del nostro gesto, le foto dei cinque leader studenteschi desaparecidos e, sul retro, il testo del volantino distribuito due anni prima.

Riesco a dare volantini a una trentina di persone, per lo più studenti (lo so perché sono in divisa), ci sono anche alcuni turisti che fanno fotografie.

Mi volto a guardare Bruno e Nikolay. Sono ancora indisturbati. Nessuno li ha fermati.

Un ragazzo dopo aver letto il volantino mi ferma per ringraziarmi. Capisco che quello che abbiamo fatto è, comunque vada, molto importante. Questi ragazzi sanno che qualcuno, qualche “pazzo”, cerca di fare qualcosa per loro.

Una ragazza, invece, mi dice di fare attenzione. Rimarrà sorpresa del fatto che ci faremo arrestare senza problemi. Siamo lì per questo.

A questo punto vedo tre o quattro uomini, vestiti normalmente, fermi davanti allo striscione. Continuo a volantinare. C’è sempre Martin che “passeggia” avanti e indietro lungo il lato del palazzo e parla al telefonino. Quando non ci sono più persone a cui dare volantini mi avvicino allo striscione e ai poliziotti – in borghese – che, adesso, cercano di strapparlo dalle mani di Nikolay e Bruno. Do anche a loro i volantini.

 

L’arresto

Arrivano anche degli uomini in divisa. Ci bloccano. Prendono lo striscione e i volantini che ho ancora in mano. Sono una decina, alcuni in divisa, altri no. Ovviamente non facciamo alcuna resistenza, però ci strattonano con forza. Quello che sembra il capo è in borghese e, paradossalmente, indossa la maglietta dell’agenzia delle Nazioni Unite per il controllo delle droghe, evidentemente regalo di Pino Arlacchi e dei suoi folli progetti di eradicazione delle colture di oppio che hanno avuto l’effetto di rafforzare i narco-regimi e affamare i popoli. Il Laos è uno dei maggiori Paesi produttori di oppio.

I poliziotti ci caricano su un … tuk-tuk! Siamo noi tre, quattro o cinque militari e l’autista. Rischiamo di ribaltarci. Una folla di curiosi segue la nostra partenza e viene energicamente dispersa. Sapremo dopo che anche i turisti che facevano fotografie sono stati fermati e poi, fortunatamente, rilasciati.

Ci portano in una specie di commissariato di campagna. Perquisiscono gli zaini. Subito dopo ci caricano su un furgone. Ci portano in un’altra caserma che sembra, più che altro, un teatro in disuso. C’è un ragazzo che fa l’interprete. È l’unico che parla inglese. È spaventatissimo. Non ci dice niente.

Ci caricano su un altro furgone e finalmente ci portano all’ufficio immigrazione della capitale.

 

Gli interrogatori

L’edificio è a due piani. Il piano terra è un tipico ufficio con sportelli per il pubblico. Il secondo piano è riservato agli uffici della polizia, ma ci sono anche delle celle. Occupate. Sono buie e sporche.

Io vengo portata in una stanza con una poliziotta che mi ordina – a gesti – di togliermi i vestiti. Mi fa spogliare completamente e controlla meticolosamente tutti i miei indumenti. Trova solo un fazzolettino di carta che non mi può restituire.

Poi, con Bruno e Nikolay, ci fanno alcune foto mentre dobbiamo mimare la manifestazione: Bruno e Nikolay tendono lo striscione e io fingo di distribuire i volantini!

Ci tolgono gli orologi, le cinture, i telefonini, i portafogli. Ci fanno firmare, con un’impronta digitale, l’elenco, in lingua lao, delle cose sequestrate.

Poi veniamo divisi. Verso le 22, finalmente, un militare mi interroga. Sono presenti altri funzionari. Scrive le sue domande e le mie risposte, in inglese, su un foglio di carta. È il primo interrogatorio formale. Fino a quel momento una decina di poliziotti si erano alternati interrogandomi continuamente ma in modo “amichevole”.

L’interrogatorio è breve. Al termine mi informa che siamo in arresto (ma non dice con quale accusa) e che passeremo la notte in una guest-house. Gli chiedo se sa dove sono gli altri nostri due compagni. Dice che non lo sa.

Mi riportano nello stanzone principale dove aspetto che scendano gli altri. Arrivano, invece, due funzionari di partito, uno con una “divisa” alla Mao Zedong che rimane in piedi e mi dice che chi non ha il passaporto in Laos … e mi fa semplicemente il gesto del taglio alla gola. L’altro mi si siede di fronte e comincia un interrogatorio informale ma estenuante. Dura almeno un’ora. Ha un’aria molto cattiva e minacciosa. Dice che siamo terroristi. Gli spiego le motivazioni della nostra iniziativa, il fatto che non siamo criminali ma militanti di un partito nonviolento e che la nostra azione non è stata né pericolosa né violenta.

Alle tre di notte (c’è un orologio a muro) capisco che gli altri non scenderanno e che non andremo in nessuna guest-house. Non sapere niente degli altri mi preoccupa.

Aspetto che il numero dei poliziotti intorno a me diminuisca. Alcuni si mettono a dormire sui tavoli degli sportelli di informazione per il pubblico, altri si siedono all’esterno dell’edificio. Mi stendo sulla panca dove mi hanno lasciata e dormo tre ore.

La mattina presto l’ufficio si anima. Molti dei giovani poliziotti, sempre in borghese, escono con le moto. Probabilmente girano per la città a “controllare”.

Alle otto mi riportano al piano di sopra dove rivedo Nikolay e Bruno. Mi impressiona vedere il segno delle manette, troppo strette, sui loro polsi. Riescono a dirmi che li hanno fatti dormire ammanettati a delle sedie. Ci fanno fare altre foto ridicole con lo striscione e il finto volantinaggio e un militare si improvvisa cineoperatore. Ci impediscono di parlare tra noi, ma riusciamo ad accordarci sul fatto che ancora per la mattinata non diremo i nostri nomi e la nostra nazionalità, questo per dare il tempo a Martin di prendere l’aereo per Bangkok alle 10 e 30.

Di nuovo separati e in attesa di novità, intorno alle 12 arrivano due militari, uno con una macchinetta fotografica, l’altro con una valigetta dalla quale tira fuori tampone, inchiostro e schede per le impronte digitali. Solite domande alle quali rispondo nel solito modo: sono “anonima” come i cinque studenti che hanno arrestato e fatto sparire due anni prima, abbiamo manifestato in modo pacifico per chiedere democrazia, libertà e riconciliazione con i laotiani in esilio. Il militare mi dice che sono pazza.

Arrivano altri militari con le nostre valige. Finalmente le hanno trovate. Ci hanno messo oltre 20 ore per fare il giro della decina di guest-house di Vientiane, peraltro tutte di Stato.

Mi riportano al primo piano dove rivedo Bruno e Nikolay. Questa volta mi dicono che sono stati picchiati durante l’ultimo interrogatorio.

A questo punto la procedura vista mille volte al cinema, solo molto più “casalinga”: impronte digitali e foto segnaletiche. Poi un ulteriore interrogatorio, questa volta formale e con domande molto minuziose. Rispondo a tutte le domande in modo preciso ed esauriente, ormai Martin è già a Bangkok al sicuro. Seguono molte domande sul nostro partito, il militare che mi interroga è impressionato dal fatto che l’iscrizione al partito ha un costo ed è annuale, gli dico che noi, al contrario dei laotiani, non abbiamo un partito unico e siamo liberi di scegliere. Gli propongo di iscriversi.

Mi chiede perché siamo andati lì a manifestare per la democrazia quando il programma del Laos è pace, unità, prosperità e democrazia. Gli rispondo chiedendogli perché, se è così, ci hanno arrestati. Dice che manifestare è pericoloso per il popolo. Forse per il partito, gli dico. Dice che il popolo può scrivere al Presidente le proprie proteste. Immagino la fine che può fare chi si azzarda a scrivere al Presidente. Sostiene che in Laos tutti sono felici e si vive bene, che il partito pensa a tutto e risolve tutti i problemi, che con un partito unico non ci sono contrasti e disordini. Gli chiedo perché allora la gente scappa oppure viene arrestata e poi non se ne sa più nulla. Dice semplicemente che si tratta solo di una piccola percentuale di gente “cattiva”.

Sono ormai quasi le quattro, di Olivier e Massimo nessuna notizia. Chiedo di telefonare in Italia. Mi dicono che posso farlo, ma dopo, dopo…

 

Il carcere

All’ingresso dell’edificio c’è un furgone. Sul retro vedo Nikolay che mi saluta. Mi fanno salire sul davanti, tra l’autista e un altro poliziotto. Bruno non c’è. Partiamo. Attraversiamo la città, ma non nella direzione del fiume, della frontiera. Svoltiamo in una stradina di periferia, non asfaltata, in lontananza la torretta del carcere. Non si tratta di espulsione, allora.

All’ingresso del carcere fanno scendere solo me dal furgone. Mi portano in un ufficio all’interno del recinto. Ci sono tutte le nostre valige. Quelle di Bruno sono su un altro lato della stanza, probabilmente è già qui.

I poliziotti sono tutti giovanissimi e tutti in borghese. Mi fanno delle domande ma nessuno parla inglese. Gli dico (ad alta voce per scaricare la tensione) che non posso rispondere alle loro domande perché non le capisco, che sono italiana e non laotiana. Chiamano un tizio che parla un inglese discreto ma con una pronuncia pessima, quasi incomprensibile, così come tutti gli altri poliziotti con i quali fino a quel momento ho parlato. Solite domande di rito: nome, nazionalità, eccetera. Prendono la mia valigia e il mio zaino, ne rovesciano il contenuto per terra. Fanno una cernita, abbastanza discrezionale, delle cose da darmi. Riflettono parecchio sulla carta igienica. Decidono di lasciarmela. Il mio necessaire è quindi composto da: due pantaloncini, tre magliette, due slip, spazzolino e dentifricio, sapone, asciugamani, sacco a pelo e zanzariera.

Il carcere ha un grande cortile sul quale si affacciano alcune costruzioni. In una ci sono gli uffici, in due ci sono le celle, cinque per lato. Un ultimo edificio ospita le cucine per gli uomini; la cucina delle donne è, invece, una capanna.

Mi portano in quella che sarà la mia cella per i primi quattro giorni. È la numero uno del primo edificio. È uguale a tutte le altre, tre metri e mezzo per tre metri e mezzo. C’è un tavolato di legno a mezzo metro da terra che occupa due terzi della stanza e dove si svolge la “vita” della cella. Di fronte alla porta (con le tipiche sbarre, ma anche con una seconda porta di legno che viene chiusa di notte) c’è il bagno, grande due metri per uno, con una tazza alla turca (senza scarico) e una piccola vasca in cemento con un rubinetto e una scodella per prendere e usare l’acqua. Due finestre, con le sbarre, che danno sul cortile, illuminano la stanza.

Nella mia cella ci sono cinque donne. Quando mi ci portano stanno mangiando. Mi ricordo subito che non mi hanno dato le mie medicine per “sopravvivere” in Asia, devo prenderle ogni sera e ne ho già saltata una. Le chiedo ma i poliziotti non capiscono e non mi rispondono.

Una delle ragazze della mia cella mi chiede, in inglese, se sono lì per motivi politici. Le dico di sì e le chiedo di spiegarmi come si deve vivere in quel carcere e quali sono le regole da imparare. Sarà la mia guida.

Intanto vedo entrare in carcere Olivier e Massimo. Finalmente. Olivier ha le manette e cammina in modo strano. Poi saprò che gli hanno tenuto i piedi bloccati con delle “manette” di legno e costretto a camminare. Quando dopo un po’ passano davanti alla mia cella riesco a chiamarli e ci salutiamo.

La ragazza che parla inglese mi dice che anche un altro mio amico è entrato, si tratta di Bruno. Provo a chiamarlo ma la ragazza mi zittisce immediatamente. Non si può parlare con i detenuti delle altre celle.

Anche se non sono neanche le cinque, decido di mettermi a dormire, la notte precedente ho dormito pochissimo e sono distrutta. Stendo il mio sacco a pelo in un angolo e mi dico “ci penserò domani”.

 

La quotidianità del carcere

Fortunatamente dormo senza interruzione fino al mattino. Parlo con la ragazza che mi ha accolto il pomeriggio precedente. Questa ragazza è l’unica della mia cella che parla inglese, è thailandese (le altre sono tutte laotiane), è dentro per motivi politici, è un’attivista di una ONG internazionale. Tutto quello che so del carcere e della gente che lo ha frequentato me lo ha raccontato lei.

In prigione non ci sono delinquenti comuni, ci sono detenuti per motivi politici, per motivi di droga, per business non graditi al regime, per motivi religiosi. È un carcere, dicono, tra i migliori del Laos. Alcuni sono dentro anche da 18 anni senza mai aver avuto un processo, una sentenza, senza mai aver visto un avvocato. Alcuni stranieri non hanno mai visto i loro ambasciatori. Alcuni sono in cella di isolamento senza mai essere usciti, anche per 10 anni. Alcuni sono imprigionati in celle di due metri per uno, senza finestre e senza luce, le famigerate dark-room. Alcuni hanno scontato la pena ma sono ancora in carcere perché non possono pagare la tassa di uscita, equivalente a tre dollari.

La corruzione del regime è tale per cui si paga per tutto: si paga per spedire una lettera a casa; si paga per vedere un medico e comunque passano mesi prima che lo si possa vedere; si paga per andare in ospedale, e comunque non è detto che ci si vada (nell’ultimo anno due detenuti sono morti per una frattura e per la malaria perché non sono stati portati in ospedale); ma, soprattutto, si paga per avere un processo o per avere una pena ridotta. Soprattutto chi è coinvolto in traffici di droga gode di privilegi straordinari: se ha avuto una pena di venti anni, pagando, esce dopo uno. È bizzarro che chi è coinvolto in traffici grossi rimane in carcere pochi mesi, chi è coinvolto in piccoli traffici vi rimane molto di più, è una questione di prezzo…

 

Nella nostra cella siamo in sei: tre per motivi di droga, tre per motivi politici. Una di quelle “droga” è la moglie di un ex-vicegovernatore, deve fare cinque anni di carcere perché non vuole pagare per uscire prima, preferisce far studiare i figli…

Una di quelle “politiche” è in carcere da 12 anni senza aver mai avuto un processo, è stata arrestata con una vaga accusa di spionaggio. Qualche anno prima il marito con due dei loro quattro figli è venuto in Laos dalla Thailandia per cercare di vederla, è stato subito arrestato e messo in una dark-room. È morto. Lei non sa dove siano i suoi quattro figli. Non ha nessuna speranza di uscire.

La ragazza Thai faceva volontariato a Vientiane, è un’infermiera e spiegava ai ragazzi i pericoli derivanti dall’abuso di alcol e droghe. È stata denunciata dagli insegnanti dei ragazzi perché sostenevano che i loro studenti non avevano alcun problema e non avevano bisogno di qualcuno che spiegasse loro quelle cose. Ha avuto 5 anni, e solo perché la sua famiglia ha pagato i giudici per avere una sentenza. Il suo Governo non sa nemmeno quanti siano i detenuti thai in Laos e non riesce a far molto per loro. In carcere c’è addirittura un senatore thailandese.

 

In cella si vive come in famiglia: si mangia insieme, si divide quello che si ha, si pulisce a turno.

La tazza alla turca viene utilizzata per tutto: per lavare i piatti, per il bucato, per lavarsi i denti, per farsi la doccia. L’acqua della vasca non si può bere.

I detenuti che hanno soldi possono comprare, due volte alla settimana, delle cose a uno spaccio all’esterno. Ma è la polizia carceraria che amministra i soldi dei detenuti, i quali scrivono su un libretto quello che vogliono comprare.

 

Le celle vengono aperte dalle 8 alle 11,30 e poi dalle 13 alle 16. non c’è corrente elettrica, si dorme dal tramonto all’alba. Nelle ore d’aria alcuni detenuti possono uscire, altri no. Quelli che escono possono coltivare l’orto al centro del cortile, cucinare, non fare niente. Quelli che non escono possono solo non fare niente, come noi.

 

All’apertura delle celle, due volte al giorno, passano i “cuochi” che portano un po’ di riso, una zuppa di cavolo e dell’acqua filtrata. Il riso è della qualità collosa, la zuppa è arricchita con numerosi insetti. Quelli che possono uscire dalle celle possono integrare la loro dieta con quello che cucinano e con quello che possono comprare. Gli altri no, come noi.

 

Si può parlare solo con i detenuti della propria cella, con gli altri no. Se bisogna chiedere qualcosa ai poliziotti quando si sta in cella, si deve farlo in ginocchio.

 

Io continuo a chiedere le mie medicine sfruttando “l’interprete” che scopro essere un detenuto e non un poliziotto. Nessun poliziotto del carcere parla inglese o francese, utilizzano gli altri detenuti per parlare con noi. Ovviamente delle mie medicine neanche l’ombra, nonostante mi assicurino sempre che dopo, dopo…

Dal lunedì ricominciano gli interrogatori. Prima Nikolay, quasi tre ore. Poi Massimo, altre tre ore. Alcuni detenuti riescono a farmi sapere che la BBC ha parlato di noi e che l’ambasciata francese si sta occupando del nostro caso. Qualcosa si sta muovendo. Riesco a far avere un messaggio a Bruno in un fazzolettino di carta.

Mercoledì è il turno di Bruno, anche lui tre ore. Anche se nessuno ha l’orologio, riesco ad avere un’idea del tempo dall’apertura e chiusura delle celle.

Altra notizia dai detenuti: pare che il primo ministro abbia detto al ministro dell’interno di sbarazzarsi di noi. Tutti sono convinti che usciremo presto.

Infatti arriva un furgone e molti militari. Però mandano via tutti i detenuti politici laotiani. Mandano via anche la donna della mia cella che è dentro da 12 anni. È terrorizzata. Non sa dove la manderanno. Piange. Non capisco perché abbiano fatto questo. Mi dicono che lo fanno perché temono che parlino con noi e ci raccontino quello che hanno subito. Ma se sono quattro giorni che siamo qui!

Le ipotesi sul loro trasferimento sono tre: trasferiti in un altro carcere; trasferiti in un lager (ce ne sono ancora in Laos); uccisi.

Dopo un po’ spostano anche noi.

Ci mettono in celle da soli, in isolamento. Per far questo spostano molti detenuti da una cella all’altra come in un gioco delle tre carte.

Io vado a finire nella cella tre del mio edificio. Bruno è nella cinque.

Nikolay è nella prima del secondo edificio, Massimo nella tre e Olivier nella cinque.

Tutto quello che sappiamo di quello che accade nel carcere ci viene raccontato dagli altri detenuti quando riescono a passare davanti alle nostre celle e non ci sono poliziotti nei paraggi. È proibito parlare con i detenuti nelle celle di isolamento, ma alcuni detenuti riescono anche a portarci qualcosa da mangiare.

La cella dove mi hanno messo era precedentemente occupata da una donna cinese pazza che è stata spostata nella cella quattro. È quindi tra me e Bruno. La donna non ha mai pulito la sua cella, difatti quando mi ci portano il pavimento è coperto da avanzi di cibo, vari animali, ragnatele, tutto è sporco, il bagno sembra non essere stato mai utilizzato, sicuramente non è mai stato pulito. Ho il primo momento di sconforto da quando sono stata arrestata. Fortunatamente dura poco. Prima di essere chiusa dentro le altre detenute mi regalano un secchio, uno straccio e del detersivo. Con queste cose pulisco come meglio posso la mia cella, quella che sarà la mia casa per chissà quanto tempo.

La nostra situazione è questa: siamo soli in celle completamente vuote, non abbiamo che le poche cose dateci all’ingresso del carcere, non abbiamo niente da leggere, niente per scrivere, non possiamo uscire dalle celle per le ore d’aria. Non abbiamo altro da mangiare o da bere che quello che ci portano i “cuochi”. Non possiamo far niente, possiamo solo aspettare. Ogni tanto qualche detenuto mi fa arrivare qualche notizia di giornali o radio che ci riguarda, o mi fa sapere qualcosa dei miei quattro amici.

Di giorno fa caldissimo, la notte è fredda. La zona è malarica e ci sono moltissime zanzare. La mia cella è piena di animali. Ne ho contate 22 specie. Ma forse qualcuna mi è sfuggita. La notte dormo avvolta nella zanzariera.

Questo mercoledì ricco di novità non è ancora finito. La sera arriva un poliziotto con il solito “interprete”. Ci fa sapere che hanno scoperto che siamo vip appartenenti a una potentissima organizzazione. Per questo motivo possiamo ordinare da mangiare tutto quello che vogliamo. Penso che mi stia prendendo in giro ma insiste e ordino una cena luculliana. Arriveranno solo delle banane infestate di formiche, del resto … niente. Proprio uno scherzo divertente.

La pazza che era nella mia cella e che adesso è nella cella accanto ogni tanto parla da sola, urla e sputa tutto il tempo. Penso con orrore che avrà sputato tutto il tempo anche quando era in quella che è diventata la mia cella… pazienza, non starò mai a piedi nudi come da regolamento carcerario.

L’unica nota positiva è che dopo un goffo tentativo riesco a stabilire un contatto con Bruno. Il fatto che ci divide solo la cella con la pazza ci consente di parlare quando lei non urla e quando non ci sono poliziotti in giro, e riusciamo a sentirci anche abbastanza bene.

La pazza non esce mai dalla sua cella. Chissà da quanto tempo è dentro. Il numero dei pazzi che circola in questo carcere è incredibile, ed è evidente che si tratta di pazzia indotta.

 

Il giovedì è il turno dell’interrogatorio di Olivier. Le urla dei poliziotti arrivano fino alle nostre celle.

 

Gli incontri con gli ambasciatori

Venerdì, finalmente, una grande novità. Il pomeriggio arrivano i poliziotti che ci dicono di vestirci con pantaloni lunghi, scarpe chiuse e maglietta a maniche lunghe. Dico loro che non mi hanno lasciato una maglietta a maniche lunghe. Mi fanno uscire lo stesso. Escono anche Bruno e Massimo ma ci dicono subito che non possiamo parlare tra noi. Loro sono ammanettati. Massimo, che ha un’allergia al nichel, ha le braccia ricoperte da bolle provocategli dalle manette.

Ci portano in un furgone che attraversa la città. Riusciamo a vedere molte case poverissime circondate da ville hollywoodiane, sono il frutto della droga proibita.

Arriviamo agli uffici della prefettura. Capiamo che incontreremo il nostro ambasciatore. Per la prima volta, dopo una settimana dall’arresto.

Dopo un’attesa estenuante ci fanno entrare in una stanza piena di poliziotti. Su un divano al fondo della sala c’è il nostro ambasciatore con il capo della polizia, sui divanetti laterali gli interpreti, l’ambasciatore francese, il console italiano, altri funzionari di polizia. Tutt’intorno poliziotti. Ci fanno sedere su un divano sul lato opposto a quello del nostro ambasciatore. Siamo a circa 8/10 metri. Alcuni poliziotti ci si avvicinano in modo eccessivo con una telecamera e un microfono.

L’ambasciatore ci dice che è costretto a parlare in inglese, che questo incontro potrà durare solo 10 minuti, che i laotiani vogliono processarci, non si sa quando, non si sa quanto il processo sarà lungo, dovremo trovarci un avvocato laotiano, non potrà tornare a trovarci presto.

Diciamo quali sono le nostre condizioni di detenzione. Il capo della polizia dice che, al momento, non sa se possono cambiare.

Siamo molto depressi.

 

Nei giorni successivi non cambia nulla. Anzi, la nostra situazione, se possibile, peggiora. Gli altri detenuti hanno avuto il divieto di avvicinarsi alle nostre celle, parlarci, addirittura rivolgerci lo sguardo. Da questo momento siamo abbandonati a noi stessi.

 

Il mercoledì successivo, all’alba, tornano i poliziotti a prenderci. Altro incontro con gli ambasciatori. Questa volta ci sono anche due avvocati. Il deputato europeo francese François Zimeray, membro del gruppo socialista, avvocato del foro di Parigi, e l’avvocato laotiano Phivat Vorachak. Zimeray ci dice che il nostro arresto e la detenzione risultano illegali per quanto attiene al diritto interno del Laos, e che i laotiani hanno violato la Convenzione di Vienna sulle relazioni Consolari, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e, soprattutto, l’Accordo di Cooperazione fra l’Unione Europea e il Laos.

L’ambasciatore ci dice che il giorno successivo il sottosegretario agli Esteri del nostro Governo, Margherita Boniver, verrà in Laos per accertarsi personalmente delle nostre condizioni.

Tornati in carcere ci aspetta una sorpresa notevole. Il pomeriggio ci fanno uscire per l’ora d’aria… un quarto d’ora! Mi puliscono anche la cella togliendo le ragnatele dal soffitto. Chiedo ai poliziotti se lo fanno perché sta arrivando un membro del mio Governo. Non rispondono.

 

Il processo

Giovedì 8 novembre ci portano in un ufficio dove incontriamo l’avvocato laotiano. È la prima volta che ci incontriamo tutti e cinque dal 26 ottobre.

Nikolay ci dice che suo padre è morto. Glielo ha detto il suo ambasciatore.

L’avvocato ci comunica che la mattina successiva ci sarà il processo. Ci spiega come dobbiamo comportarci. Non altro. Sembra che siamo accusati di attentato alla sicurezza dello Stato e che la pena potrebbe essere di cinque anni. Non sembra sicuro. Ma sembra molto spaventato del ruolo che gli tocca ricoprire.

Venerdì mattina caricano noi tre italiani su un cellulare della polizia. Arriviamo in un fatiscente tribunale che sembra di campagna, ma è nel centro della città. In una stanza incontriamo il sottosegretario Boniver e l’ambasciatore. L’onorevole Boniver ci dice che ha avuto un incontro con il viceministro degli esteri del Laos, che probabilmente ci espelleranno ma non è certo. La tensione non manca, anche da parte dei diplomatici italiani.

In un’altra stanza ci aspettano Olivier e Nikolay, anche loro hanno incontrato i rispettivi ambasciatori, quello belga e quello russo.

Comincia il processo. Una farsa.

Il nostro console si improvvisa traduttore dall’italiano al francese, l’avvocato laotiano traduce a sua volta dal francese al laotiano. Brevissimo interrogatorio: come ci chiamiamo, nazionalità e poco altro. Arringa dell’avvocato difensore che precede l’accusa: in poche parole l’avvocato deve difenderci senza conoscere i capi d’imputazione, un sistema penale quanto meno originale.

Camera di consiglio di dieci minuti. Sentenza: due anni, espulsione immediata. Purtroppo le traduzioni improvvisate fanno sì che non ci sia molta certezza sui capi d’imputazione e sulla condanna.

Ci riportano in carcere.

Nel pomeriggio, finalmente, ci trasferiscono in aeroporto dove rimaniamo fino a sera circondati da militari. Ci hanno restituito le nostre valige e i nostri zaini con le cose che ci avevano sequestrato all’arresto: a Olivier e Massimo hanno rubato 300 dollari a testa; a Olivier anche una penna e la cintura dei pantaloni; a me due penne a sfera…

Sabato 10 novembre, all’alba, in Italia.

 

È servito tutto questo? Certamente sì! Abbiamo saputo che i cinque studenti sono vivi: il primo ministro ha assicurato alla Boniver che verranno processati presto; due detenuti australiani liberati; il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione di condanna al regime laotiano; le autorità laotiane sanno che non sono più fuori controllo; i laotiani sanno che non sono stati abbandonati.

E noi, siamo pazzi? Forse, ma pazzi di libertà e di democrazia.

 

 

Novembre 2001